San Gregorio di Nissa
La natura divina, l’increato e il creato
San Gregorio di Nissa (335-394), fratello minore di Basilio Magno, se non eccelse come lui nell’attività ecclesiastica, o come il Nazianzeno nella retorica e nella poesia, occupa tuttavia un posto di tutto rilievo nella storia della teologia speculativa e di quella mistica in particolare. La sua teologia è analitica, il suo ragionamento è molto denso. I passi riportati sono tratti dal suo trattato teologico-trinitario, Contro Eunomio e offrono dei criteri metodologici con i quali si può tentare di fare teologia in modo serio. Eunomio negava l’eternità di Cristo, finendo pertanto per definirlo come una creatura. In questi passi Gregorio, dopo aver fatto la differenza tra la realtà creata e quella increata, indica che le caratteristiche di Cristo lo pongono nell’increato e quindi in Dio. Alti ragionamenti, per il nostro tempo, abituato a “umanizzare” tutto rendendo banali anche le cose più serie! Da questa triste moda non si salva neppure chi dovrebbe proporre uno stile di vita diverso. In questo nostro deflagrato contesto, la serietà di autori come San Gregorio di Nissa è una salutare provocazione.
Tutte le caratteristiche di Dio sono eterne, a differenza di quelle del creato
La divisione ultima di tutte le realtà esistenti ci porta a separare, da una parte, ciò che è stato creato, dall’altra ciò che è increato: l’uno come causa di quello che è stato fatto, l’altro come ciò che è stato fatto da quello. Dal momento, dunque, che la natura creata e la sostanza divina sono divise l’una dall’altra e non hanno nessuna possibilità di confondersi tra di loro, in base alle peculiarità che le fanno conoscere, è assolutamente necessario non servirsi delle medesime peculiarità quando vogliamo pensare l’una e l’altra natura, e non cercare identici segni distintivi di realtà che, nell’essenza della loro natura, sono separate tra di loro. Poiché, dunque, la natura che si trova nella creazione, come dice in un certo passo la parola della virtuosissima Sapienza, mostra in sé l’inizio e la fine e il mezzo dei tempi e si protende insieme a tutte le dimensioni del tempo, noi consideriamo questa peculiarità come un carattere dell’oggetto, poiché sicuramente vediamo che c’è un determinato principio della sua esistenza, e guardiamo quello che è nel mezzo, e protendiamo la nostra aspettativa verso la fine. Abbiamo appreso, infatti, che il cielo e la terra non erano dall’eternità e non saranno per l’eternità, cosicché da questo fatto è chiaro che ciò che esiste ha avuto inizio da un principio e assolutamente cesserà con un termine. Invece la natura divina non è terminata da nessuna parte, ma con la sua infinità oltrepassa in ogni direzione ogni limite ed è ben lontana dai segni che si riscontrano nella natura creata. Infatti la potenza priva di estensione e di quantità e di delimitazione, la quale possiede in se stessa i secoli e tutta la creazione che si trova nei secoli, e da ogni parte oltrepassa l’infinitezza dei secoli con l’eternità della propria natura, o non possiede nessun segno che ne riveli la natura o ne possiede sicuramente un altro, che non è quello posseduto dalla creazione. Poiché, dunque, è peculiare della creazione il possedere un principio, quello che è specifico della creazione è estraneo alla natura increata. Se, infatti, uno pretendesse che anche l’esistenza dell’Unigenito fosse ipotizzata come proveniente da un principio oggetto di comprensione, a somiglianza di quanto avviene per la natura creata, di necessità sicuramente costui dovrebbe adattare a quello che si dice del Figlio anche gli altri particolari che ne conseguono. Non è possibile, infatti, una volta ammesso il principio, non ammettere anche la conseguenza. Come, infatti, se si dicesse che uno è un uomo, dipenderebbero da quello che si è ammesso tutte le peculiarità della natura umana, e si direbbe che quello è un animale ed è razionale e tutto quello che si pensa a proposito dell’uomo; così, analogamente, se noi pensassimo a proposito della sostanza di Dio una peculiarità che è propria della creazione, non sarebbe più in nostro potere non applicare alla natura immacolata il restante elenco delle peculiarità viste nella creazione, ché il principio richiederà con ogni forza e con ogni necessità la conseguenza che viene dopo di esso. Infatti il principio così pensato è principio delle realtà che vengono dopo di lui, cosicché, se quelle cose saranno, sarà anche il principio; se, invece, vengono eliminate le conseguenze, non rimarrà nemmeno l’antecedente. Poiché, dunque, la Sapienza aggiunge al principio un mezzo e una fine, qualora noi concepissimo a proposito della natura dell’Unigenito un principio dell’esistenza, definita a partire da un certo punto, come asserisce l’eresia, la Sapienza senza dubbio non concederebbe che non fossero congiunti con il principio anche la fine e il mezzo. Ma se questo avvenisse, certamente risulterebbe che il nostro teologo avrebbe mostrato, con le sue argomentazioni, che Dio è mortale. Se, infatti, al principio consegue di necessità la fine, secondo le parole della Sapienza, e se si scorge anche il mezzo tra gli estremi, colui che concede il primo punto, in potenza ha già dimostrato anche gli altri, definendo, per la natura priva di limiti, misure e termine della vita. Ma se questo è empio e assurdo, allora è esposto alla medesima (e forse maggiore) accusa il dare principio a un ragionamento che va a finire nell’empietà, e inizio di siffatta assurdità è apparso il credere che la vita del Figlio sia circoscritta entro un principio. Cosicché delle due, l’una: o, costretti da quanto abbiamo detto, si conformeranno al sano ragionamento e osserveranno, insieme all’eternità del Padre, anche colui che proviene dal Padre, o, se non lo vogliono fare, delimiteranno l’eternità del Figlio da entrambe le parti, vale a dire con l’inizio e con la fine, portando così al non essere la sua vita infinita.
La natura divina e la natura creata
Ma se priva di fine è la natura delle anime e degli angeli, e se niente le impedisce di procedere verso l’eternità per il solo fatto di essere stata creata e di avere avuto da un principio l’inizio della propria esistenza (cosicché i nostri nemici potrebbero dire la stessa cosa anche a proposito di Cristo, e cioè che non è dall’eternità, e pure si protende verso l’esistenza senza fine), colui che avanza questa ipotesi consideri anche quanto sia distante, per le sue peculiarità, la natura divina dalla creatura. Tipica della natura divina, infatti, è il non essere manchevole di nessun pensiero che si concepisca relativamente al bene, mentre la creatura si trova nel bene solo in seguito alla partecipazione al meglio, e non solo ha cominciato ad esistere, ma si comprende anche che essa inizia ogni volta ad essere nel bene, attraverso un accrescimento che porta verso il meglio. Perciò la creatura non si ferma mai in quello che ha ottenuto, ma tutto quello che è stato ottenuto attraverso la partecipazione diviene per lei inizio dell’ascesa verso il meglio e, come dice Paolo, giammai cessa di protendersi verso le realtà che le stanno davanti e sempre si dimentica di quelle che ha oltrepassato.
Poiché, dunque, l’essere divino è la vita in sé, e il Dio unigenito è Dio e vita e verità e ogni pensiero sublime e conveniente a Dio, mentre il creato prende da lassù il dono di ogni bene, da tutto questo diviene chiaro che, se il creato è nella vita perché partecipa alla vita, qualora cessi di partecipare alla vita, sicuramente cessa anche di essere nella vita. Se, dunque, anche a proposito del Dio Unigenito hanno il coraggio di fare affermazioni di tal genere, che sono vere quando sono fatte a proposito del creato, allora insieme al resto dicano anche che, allo stesso modo del creato, il Figlio comincia ad esistere e rimane nella vita a somiglianza delle anime. Ma se egli è la vita stessa, e non ha bisogno di possedere in se stesso la vita come se fosse qualcosa che gli proviene dal di fuori, mentre tutte le altre cose non sono la vita, ma partecipano alla vita, che bisogno c’è di negare al Figlio l’eternità facendo ricorso a quelle realtà che si vedono nel creato? Infatti la sostanza che è sempre uguale a se stessa per natura non ammette per sé il suo contrario ed è indenne dal mutamento in un’altra condizione, mentre le sostanze la cui natura è al confine posseggono una propensione, che può volgersi nell’uno o nell’altro senso, e che si piega a suo piacimento verso quello che le talenta. Se, dunque, si osserva che la vera vita esiste nella natura divina e sublime, senza dubbio, come è logico, non avrà luogo per essa la caduta nella condizione opposta. Ebbene, la nozione di “vita” e quella di “morte” hanno vari significati e non sono intese sempre allo stesso modo. Nella carne, infatti, sono dette “vita” l’attività e il movimento dei sensi del corpo, e, viceversa, è chiamato “morte” il loro spegnersi e il loro dissolversi, mentre nella natura intelligente la vera vita è costituita dall’accostarsi a Dio e il cadere lontano da questa condizione ha il nome di “morte”. Per questo motivo anche il male originario, e cioè il diavolo, è chiamato “morte” e “inventore della morte”, e l’apostolo dice anche che ha la signoria sulla morte. Dal momento, dunque, che in due modi, come si è detto, si intende, in base alla Scrittura, il significato di “morte”, colui che è veramente immutabile e senza alterazione è il solo a possedere l’immortalità e ad abitare la luce, che è inaccessibile e inavvicinabile alla tenebra del male, mentre gli esseri che partecipano alla morte e sono lontani dall’immortalità in quanto si volgono verso il suo contrario… ma se si staccasse dalla partecipazione al bene, accoglierebbe, a causa della mutevolezza della sua natura, la comunione con il peggio, che non è altro che la morte, avendo un certo rapporto di analogia con la morte del corpo. Come, infatti, tra gli uomini lo spegnersi delle attività naturali è chiamato “morte”, così anche nella sostanza intelligente il non muoversi verso il bene è “morte” e “allontanamento dalla vita”, cosicché quello che si pensa riguardo a quel creato che è incorporeo non contraddice il ragionamento che confuta l’assurdità eretica. Infatti la morte che si confà alla natura intelligente, vale a dire la separazione da Dio, che noi chiamiamo “vita”, in potenza esiste anche in questa natura, ché il passaggio dal non essere all’essere rivela che la sua natura è mutevole. Ma colui che possiede connaturato a sé il mutamento è impedito dal partecipare alla realtà opposta solo dalla grazia di quello che ha forza in lui e non deve alla capacità della propria natura il suo rimanere nel bene: ebbene, siffatta realtà non è eterna. Se, dunque, si dice la verità, quando si afferma che non bisogna stabilire un rapporto di analogia basata sui medesimi particolari tra la sostanza divina e la natura creata, e che non si deve circoscrivere l’esistenza del Figlio per mezzo di un principio, perché, una volta concesso questo, non si introducano insieme, grazie all’ammissione di questa sola cosa, anche le altre caratteristiche della creazione, allora è chiaramente confutata l’assurdità di colui che, servendosi delle considerazioni che sono calzanti per la creazione, stacca dall’eternità del Padre il Dio unigenito. Come, infatti, nessun’altra caratteristica del creato si riscontra esistente in colui che ha fatto il creato, così nemmeno il fatto che il creato proviene da un principio serve a dimostrare che il Figlio non è sempre nel Padre: il Figlio, che è sapienza e potenza e luce e vita e tutto quello che si osserva esistente nel seno del Padre.
Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/ControEunomio.htm
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