San Basilio Magno

Lettera 38

 

Proveniente da nobile e ricca famiglia, Basilio (330 circa-379) prima fu monaco, poi prete nella natia Cesarea di Cappadocia, quindi vescovo a partire dal 370. Ebbe parte attiva nella controversia ariana combattendo energicamente l’eresia di Ario. Fu un valido organizzatore della vita monastica in Asia minore. Di lui abbiamo scritti trinitari, ascetici, morali ed esegetici. Ci è anche giunta qualche sua omelia e un ricchissimo epistolario, testimonianza dell’instancabile attività di questo grande santo della Cristianità orientale.
La lettera che segue spiega, attraverso esempi pratici e lineari ragionamenti, il significato del termine
sostanza e ipostasi nella Trinità. È un mirabile esempio di coerenza teologica che contrasta con il nostro tempo in cui vengono dissolti i significati delle frasi mentre i termini teologici non hanno alcun referente concreto nella vita pratica.

Al fratello Gregorio, sulla differenza fra sostanza e ipostasi.

1. A proposito delle dottrine che riguardano Dio molti, non distinguendo la sostanza comune dal concetto delle ipostasi, fanno coincidere i concetti e credono che non faccia differenza dire sostanza o ipostasi, per cui alcuni, che accolgono tali discorsi senza esaminarli, hanno deciso di affermare, come una sola sostanza, così anche una sola ipostasi, e inversamente, quelli che accettano le tre ipostasi credono che corrispondentemente si debba affermare la divisione delle sostanze secondo lo stesso numero. Per tal motivo, perché non succeda lo stesso anche a te, ti presento su questo argomento una trattazione riassuntiva. Il significato dei termini, per dirla in breve, è il seguente.

2. Di tutti i nomi, quelli che si predicano di più oggetti distinti per numero, hanno significato più generale, come, p. es., uomo. Infatti chi dice così indica col nome la natura comune e non definisce con la parola un singolo uomo, che appunto per il nome viene riconosciuto nella sua individualità. Infatti Pietro non è uomo più di Andrea, Giovanni, Giacomo. Il significato comune, che abbraccia ugualmente tutti coloro che ricadono sotto lo stesso nome, ha bisogno di una suddivisione, per cui noi riconosciamo non l’uomo in generale, ma Pietro o Giovanni. Altri nomi invece danno un’indicazione più particolare, per cui noi consideriamo con ciò che viene significato non la natura comune ma la delimitazione di una singola entità, che nulla ha in comune, nella sua individualità, con ciò che appartiene allo stesso genere, come, p. es., Paolo o Timoteo. Infatti tale parola non si estende alla natura comune, ma distinguendo dal significato generale, dà con i nomi l’indicazione di alcune entità delimitate.

Perciò se noi, assumendo sotto lo stesso riguardo due o più persone, come Paolo, Silvano, Timoteo, cerchiamo la definizione della sostanza degli uomini, non daremo una definizione della sostanza riguardo a Paolo, un’altra riguardo a Silvano e un’altra riguardo a Timoteo, ma la definizione che indicherà la sostanza di Paolo si adatterà anche agli altri, e sono fra loro consustanziali quanti sono indicati dalla stessa definizione della sostanza. Ma se, avendo appreso ciò che c’è di comune, uno si volge a considerare le proprietà individualizzanti, per le quali un’entità si distingue dall’altra, allora la definizione che indica ognuna di quelle entità non si adatterà completamente a quella che ne indica un’altra, anche se si trovano in loro alcune proprietà comuni.

3. Voglio dir questo: ciò che si predica in modo individuale è indicato dalla parola ipostasi. Infatti chi dice “uomo”, per l’indeterminatezza del significato suscita in chi ascolta un’idea non definita, sì che dal nome viene definita la natura ma non indicata l’entità individuale sussistente, ch’è indicata dal suo nome particolare. Chi invece dice “Paolo” rileva, nell’entità indicata dal nome, la natura individuale sussistente. Questa è l’ipostasi: non la nozione indefinita di sostanza, che non trova alcuna stabilità per la genericità del significato comune; ma la nozione che distingue e definisce ciò che c’è di comune e indefinito in una qualche entità, mettendo in rilievo i caratteri individuali. Anche nella Scrittura questo modo di fare è usuale, oltre che in molti altri episodi, anche nella storia di Giobbe.

Infatti quando il testo intraprende a parlare di lui, prima ricorda ciò che aveva di comune e lo dice “uomo”, ma subito lo circoscrive con ciò che lo individualizza mediante l’aggiunta di “un certo”. Così ha taciuto la descrizione della sostanza in quanto non avrebbe arrecato nulla di utile alla finalità del racconto, e invece caratterizza l’”un certo” con le note individuali, e parlando del luogo, dei tratti distintivi del carattere e di tutto quanto Giobbe aveva ricevuto dall’esterno, lo separa e lo distingue rispetto al significato comune della parola “uomo”. In tal modo la descrizione del personaggio risulta del tutto evidente dal nome, dal luogo, dai caratteri distintivi dell’anima e dagli elementi esterni che si conoscevano riguardo a lui. Se invece il testo avesse dato la definizione della sostanza, non si sarebbe fatta alcuna menzione di ciò ch’è stato detto nell’individuazione della natura. Infatti la definizione sarebbe stata la stessa che per Baldad il Sauchita, per Sophar il Mineo e per ognuna delle altre persone che vengono lì ricordate.

Questo concetto della distinzione fra sostanza e ipostasi, che hai riconosciuto in ciò che riguarda noi uomini, se lo trasferirai alla dottrina che riguarda Dio non sbaglierai. Ciò che la mente ti suggerisce sul modo di essere del Padre (infatti non è possibile che l’anima si fondi su un concetto ben determinato, perché è convinta che l’idea di Dio è al di sopra di ogni concetto), questo stesso concetto tu penserai del Figlio e altrettanto dello Spirito santo. Infatti la nozione d’increato e incomprensibile è una sola e la stessa per il Padre, il Figlio e lo Spirito santo, perché non si dà che uno sia più increato e incomprensibile e l’altro lo sia meno. Poiché però bisogna avere una ben precisa distinzione nella Trinità grazie ai caratteri individuali, non assumeremo ciò che consideriamo comune – come, p. es., l’essere increato o al di là di ogni comprensione, o qualcosa del genere – per la distinzione di ciò ch’è individuale, e invece cercheremo soltanto ciò per cui il concetto di ogni singola persona possa essere distinto in modo chiaro e senza confusione da quello della divinità complessivamente considerata.

4. Mi sembra opportuno ricercare così questo concetto. Ogni bene che viene a noi dalla potenza divina è effetto della grazia che opera tutto in tutti, secondo quanto dice l’apostolo: “Tutto questo opera il solo e medesimo Spirito, dividendo a ciascuno come vuole” (1 Ep. Cor. 12, 11). Ma quando ricerchiamo se questa distribuzione di beni tocca a chi ne è degno avendo tratto origine soltanto dallo Spirito santo, ancora una volta la Scrittura c’indirizza a credere che la causa prima della distribuzione dei beni operati in noi per mezzo dello Spirito santo è il Dio Unigenito. Abbiamo appreso infatti dalla Sacra Scrittura che tutto è stato creato per mezzo di lui e sussiste in lui (Ev. Io. 1, 3; Ep. Col. 1, 17). Ma dopo che ci siamo innalzati a questo concetto, di nuovo guidati in alto come per mano dall’ispirazione divina apprendiamo che tutte le cose sono state tratte dal non essere all’essere grazie a quella potenza, ma neppure da questa senza principio, perché c’è una potenza sussistente senza essere stata generata e senza avere principio, che è causa della causa di tutti gli esseri. Infatti dal Padre deriva il Figlio per mezzo del quale sono state create tutte le cose, insieme col quale inseparabilmente noi consideriamo sempre anche lo Spirito santo. Infatti non è possibile pensare al Figlio senza essere stati prima illuminati dallo Spirito.

Poiché dunque lo Spirito santo, da cui come fonte tutti i beni si diffondono sulla creazione, è connesso col Figlio insieme col quale inseparabilmente viene compreso, e d’altra parte il suo essere è collegato al Padre, che ne è la causa e dal quale anche procede, ha come segno distintivo della sua individualità secondo l’ipostasi il fatto di essere conosciuto dopo il Figlio e insieme con lui e di derivare l’essere dal Padre. Il Figlio poi, che per mezzo di sé e con sé fa conoscere lo Spirito che procede dal Padre ed è il solo che sia stato generato traendo splendore dalla luce ingenerata, nulla ha in comune col Padre o con lo Spirito santo quanto all’individualità dei caratteri distintivi, ma egli solo si fa conoscere dai segni che abbiamo detto. Infine Dio che è su tutti ha come segno distintivo della propria ipostasi l’essere Padre e il non aver derivato l’essere – lui solo – da altra causa, e per questo segno anch’egli viene conosciuto nella sua individualità.

Perciò affermiamo che nella sostanza comune sono inconciliabili e incomunicabili i caratteri distintivi che rileviamo nella Trinità, grazie ai quali si mette in evidenza l’individualità delle persone che ci sono state tramandate nel deposito di fede, perché ognuna di esse viene compresa per i propri caratteri distintivi separatamente dalle altre, così che per tali segni noi troviamo ciò che separa le ipostasi una dall’altra. Di contro, per il fatto di essere infinita, incomprensibile, increata, non contenuta in un luogo e per tutti i caratteri di questo genere, non c’è alcuna differenza nella natura che dà la vita – mi riferisco al Padre, Figlio, Spirito santo –, ma si rileva in loro una comunanza continua e indivisibile.

E lo stesso ordine d’idee, per cui comprendiamo la magnificenza di ognuna delle entità che sono oggetto di fede nella santa Trinità, ci permette di procedere a considerare senza alcuna differenza la gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito santo, perché non c’è alcun intervallo fra Padre, Figlio e Spirito santo, a causa del quale il pensiero si trovi a procedere nel vuoto. Nulla c’è infatti che s’inserisca in mezzo a loro: non c’è un’altra entità sussistente oltre la natura divina, tale da poterla dividere in sé stessa per l’inserzione di un elemento estraneo; e neppure un intervallo di vuoto insussistente tale da interrompere l’armonia interna della sostanza divina, disunendo il continuo con l’interposizione del vuoto.

Ma chi considera il Padre, lo considera in sé stesso e insieme comprende col pensiero anche il Figlio. Chi poi pensa al Figlio, non tiene separato lo Spirito del Figlio, ma conseguentemente secondo l’ordine e unitamente secondo la natura, rappresenta in sé la fede nei tre composta in unità. Chi poi nomina soltanto lo Spirito, in questa professione comprende insieme anche colui cui lo Spirito appartiene. E poiché lo Spirito è di Cristo e deriva da Dio, come dice Paolo (Ep. Rom. 8, 9), come chi tira un capo della catena tira insieme anche l’altro capo, così chi trae a sé lo Spirito, come dice il profeta (Ps. 118, 131), per mezzo di questo tira insieme anche il Figlio e il Padre. E se uno tiene veramente il Figlio, lo terrà da ambedue le parti, traendo insieme da una parte suo Padre e dall’altra il suo Spirito. Infatti né può essere separato dal Padre colui che è sempre nel Padre né può essere mai diviso dal suo Spirito colui che opera tutto in lui. Analogamente colui che ha accolto il Padre, ha accolto insieme effettivamente anche il Figlio e lo Spirito santo.

In nessun modo infatti è possibile pensare a divisione o separazione, così da considerare il Figlio separatamente dal Padre e da dividere lo Spirito dal Figlio. Invece noi ravvisiamo in loro sia comunanza sia distinzione in modo indicibile e inconcepibile, perché nè la differenza delle ipostasi interrompe la continuità della natura né la comunanza secondo la sostanza elimina l’individualità delle proprietà caratteristiche. Non meravigliarti perciò se affermiamo che la medesima realtà è insieme unita e distinta e se, come in enigma, immaginiamo una nuova e straordinaria distinzione congiunta e congiunzione distinta. Se infatti uno ascolta il nostro discorso non per gusto di discutere e calunniare, gli è possibile trovare qualcosa del genere anche nella realtà sensibile.

5. Intendete comunque le mie parole come esempio e ombra della verità, non come la verità stessa delle cose, perché non è possibile che ciò che consideriamo negli esempi si adatti perfettamente a ciò per cui facciamo uso degli esempi.

Come dunque affermiamo che da ciò che appare ai nostri sensi si può dedurre insieme la distinzione e l’unità? Hai già osservato qualche volta in primavera lo splendore dell’arcobaleno nelle nubi, quell’arco dico che siamo soliti definire iride, e che gli esperti affermano formarsi talvolta quando una certa umidità si mescola con l’aria, poiché la violenza del vento espelle sotto forma di pioggia l’umidità e la spessa nuvolosità che si è formata nell’atmosfera. Sostengono che si formi così. Quando il raggio del sole, penetrando obliquamente nella parte densa e oscura dell’ammasso di nubi, imprime direttamente il suo cerchio su una nube, si ha, per così dire, una riflessione e un ritorno della luce su sé stessa, perché il fulgore è respinto in senso opposto dall’elemento umido e brillante. Poiché infatti la natura di uno scintillio luminoso è tale che esso si ripercuote all’indietro su sé stesso se viene a cadere su una superficie liscia, e risulta circolare questa figura formata dal raggio sulla parte umida e liscia dell’aria, necessariamente anche l’aria che circonda la nube a causa dello splendore luminoso viene circoscritta secondo la figura della circonferenza solare. Orbene, questa luminosità è insieme continua in sé stessa e divisa. Poiché infatti presenta molti colori e molte forme, grazie alla varietà dei colori si mescola con sé stessa in modo tale che sfugge al nostro sguardo e, senza farcene accorgere, sottrae ai nostri occhi la confluenza dei vari colori gli uni con gli altri, così che non distinguiamo la zona intermedia fra l’azzurro e il rosso, dove avviene insieme la mescolanza e la separazione di un colore dall’altro, e neppure quella fra il rosso e il purpureo o fra questo e il colore dell’ambra. Poiché infatti i riflessi luminosi di tutti i colori si mostrano tutti insieme, brillano di lontano e ci sottraggono i segni del loro congiungersi gli uni con gli altri, essi sfuggono ad un esame, così ch’è impossibile accertare fino a che punto della zona luminosa c’è il rosso o il verde, e da che punto un colore comincia a non essere più tale quale lo scorgiamo nel suo brillare di lontano.

Come dunque nell’esempio riconosciamo con chiarezza le differenze dei colori ma non possiamo percepire la separazione di uno dall’altro, così considera che lo stesso ragionamento possa essere applicato alla dottrina che riguarda Dio: le proprietà delle ipostasi, come un colore di quelli che appaiono nell’arcobaleno, risplendono in ognuna delle persone che crediamo nella santa Trinità, ma quanto alla proprietà secondo natura non si può concepire alcuna differenza dell’una con l’altra, ma le proprietà distintive individuali risplendono a ciascuna nella sostanza comune. Infatti anche nell’esempio una sola è la sostanza che riflette quella luce multicolore, quella che è riflessa dal raggio del sole, ma lo splendore di ciò che appare ha molti aspetti, e così la ragione c’insegna anche per mezzo delle cose create a non farci turbare senza motivo dai discorsi che riguardano la dottrina, quando ci imbattiamo in argomenti di difficile comprensione e ci troviamo in difficoltà quanto al consenso da dare a ciò che viene detto. Come infatti per ciò che si mostra ai nostri occhi l’esperienza ci è apparsa più valida dell’esame della causa, così anche riguardo alle dottrine trascendenti più valida della comprensione razionale è la fede che c’insegna la distinzione nell’ipostasi e l’unione nella sostanza. Perciò, dato che il discorso ha rilevato ciò che è comune e ciò ch’è particolare nella santa Trinità, il concetto della comunanza si riferisce alla sostanza, mentre l’ipostasi è segno individuante di ciascuno dei tre.

6. Ma forse qualcuno penserà che il discorso che abbiamo fatto sull’ipostasi non si accorda col concetto di ciò che dice l’apostolo riferendosi al Signore: “Riflesso della sua gloria e impronta dell’ipostasi” (Ep. Hebr. 1, 3). Se infatti abbiamo ammesso che l’ipostasi è il complesso delle proprietà individuali di ciascuno e abbiamo convenuto che, come per il Padre si considera qualcosa d’individuale per cui egli solo è riconosciuto, analogamente anche per il Figlio crediamo lo stesso, come mai qui la Scrittura attribuisce il nome di ipostasi soltanto al Padre e definisce il Figlio forma dell’ipostasi, caratterizzato dalle proprietà distintive non sue ma del Padre? Se infatti l’ipostasi è segno individualizzante di ciascuna esistenza e siamo d’accordo che proprietà del Padre è di esistere senza essere stato generato, e d’altra parte il Figlio assume forma grazie alle proprietà del Padre, allora non rimarrà più caratteristica per eccellenza del solo Padre l’esser detto ingenerato, dal momento che anche l’esistenza del Figlio viene caratterizzata dalla proprietà individualizzante del Padre.

7. Ma noi affermiamo che qui il discorso dell’apostolo mira ad un altro fine, in vista del quale si è servito di queste parole ed ha parlato di riflesso della gloria e di impronta dell’ipostasi. Perciò chi lo considererà attentamente nulla troverà che vi contrasti con quanto abbiamo detto, ma che il discorso è condotto sulla base di un concetto particolare. Infatti il discorso dell’apostolo si occupa non di come le ipostasi siano distinte l’una dall’altra grazie all’evidenza dei segni caratterizzanti, bensì di come far comprendere la realtà, l’indissolubiità e l’unità della relazione del Figlio con il Padre.

Infatti non ha detto: “Egli che è la gloria del Padre”, pur se questa è la verità, ma ha tralasciato questo concetto come risaputo e invece, per insegnarci che la forma della gloria non è una per il Padre e un’altra per il Figlio, definisce la gloria dell’Unigenito riflesso proprio della gloria del Padre e così, con l’esempio della luce, ci dispone a considerare insieme inseparabilmente il Figlio col Padre. Come infatti la luce deriva dalla fiamma ma non esiste in un secondo momento dopo la fiamma, perché appena risplende la fiamma risplende insieme anche la luce, così l’apostolo vuole che si pensi che il Figlio deriva dal Padre, senza che l’Unigenito sia diviso dall’esistenza del Padre dall’interposizione di un intervallo, ma in modo che insieme con la causa si comprenda sempre ciò che da essa deriva. Allo stesso modo, quasi a spiegare il concetto esposto in precedenza, parla di impronta dell’ipostasi per guidarci con esempi corporei alla comprensione delle realtà invisibili. Come infatti il corpo è sempre compreso in una figura, ma una è la nozione della figura e altra quella del corpo e la definizione che si dà di una delle due entità non coincide con quella dell’altra; e tuttavia, anche se logicamente uno distingue la figura dal corpo, pure la natura non accetta la distinzione ma considera in modo unitario corpo e figura, così l’apostolo crede che si debba pensare intorno al Padre e al Figlio. In questo modo anche se la dottrina della fede insegna la differenza delle ipostasi senza confusione e con netta distinzione, però ci presenta anche, con ciò che si è detto, l’aderenza e quasi l’esistere insieme del Figlio col Padre, non nel senso che da parte sua l’Unigenito non esista in ipostasi ma perché egli non accetta nulla di intermedio nella sua unione col Padre. Così, chi consideri attentamente con gli occhi dell’anima l’impronta dell’Unigenito comprende insieme, col pensiero, anche l’ipostasi del Padre, non perché si sia cambiata o confusa insieme la proprietà individuale che rileviamo in loro, così da immaginare la nascita per il Padre e l’ingenerabiità per il Figlio, ma nel senso che non è possibile, separandoli l’uno dall’altro, considerare di per sé quello solo che resta. Infatti, quando si nomina il Figlio, non è possibile non comprendere col pensiero anche il Padre, perché il nome di figlio, con la sua relazione, significa insieme anche il padre.

8. Dato perciò che chi ha visto il Figlio vede il Padre, come dice il Signore nel Vangelo (Ev. Io. 14, 9), per questo l’apostolo definisce l’Unigenito impronta dell’ipostasi del Padre. E perché possiamo conoscere meglio il concetto, prenderemo anche le altre espressioni dell’apostolo, in cui definisce il Figlio immagine di Dio invisibile e ancora immagine della sua bontà (Ep. Col. 1, 15; Sap. 7, 26), non perché l’immagine differisca dal modello per la nozione di invisibilità e bontà, ma perché si dimostri che è la stessa cosa che il modello, anche se è altra rispetto a lui. Infatti non sussisterebbe il concetto dell’immagine se non possedesse completa evidenza e mancanza di ogni differenza. Perciò chi osserva la bellezza dell’immagine, comprende anche il modello; e chi comprende col pensiero quella ch’è, per così dire, la forma del Figlio, si rappresenta l’impronta dell’ipostasi del Padre, guardando uno per mezzo dell’altro, non perché scorga l’ingenerabilità del Padre nell’immagine (altrimenti infatti questa sarebbe perfettamente la stessa cosa e non altra rispetto al Padre), ma perché riconosce la bellezza ingenerata in quella generata.

Come chi in uno specchio limpido osserva l’immagine della figura che vi si forma, ha piena conoscenza della persona che viene riprodotta, così chi conosce il Figlio, tramite la conoscenza del Figlio accoglie nel suo cuore l’impronta dell’ipostasi del Padre. Infatti tutto ciò ch’è del Padre si contempla nel Figlio e tutto ciò ch’è del Figlio è del Padre (Ev. Io. 16, 15), poiché tutto il Figlio sta nel Padre e a sua volta egli ha in sé tutto il Padre (Ev. Io. 14, 10). In tal modo l’ipostasi del Figlio diviene come forma e figura della conoscenza del Padre e l’ipostasi del Padre si fa conoscere nella forma del Figlio, anche se sussiste in essi, per la chiara distinzione delle ipostasi, la proprietà individuale che abbiamo rilevato.

Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/Lettera38.htm

 

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