L’Incarnazione e la Redenzione
G. Florovskij
“Il Logos si è fatto Carne”: in queste parole è espressa la gioia definitiva della fede cristiana; in esse c’è la pienezza della Rivelazione. Il Signore incarnatosi è nello stesso tempo perfetto Dio e perfetto Uomo. Il completo significato ed il fine ultimo dell’esistenza umana è rivelato e realizzato nell’Incarnazione e per mezzo di essa. Egli scese dal Cielo per redimere la terra, per congiungere per sempre l’uomo con Dio. “E divenne uomo”. È così iniziata la nuova epoca. Noi infatti calcoliamo il tempo secondo gli “anni Domini”. Come scrisse sant’Ireneo, “il Figlio di Dio è diventato figlio dell’uomo, perché quest’ultimo diventasse figlio di Dio”. Non solo la pienezza originaria della natura umana è restaurata e ristabilita nell’Incarnazione. Non solo la natura umana ritorna alla sua comunione con Dio ormai perduta. L’Incarnazione è anche la nuova Rivelazione, un nuovo ed ulteriore passo. Il primo Adamo era un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo è il Signore che viene dal Cielo (1 Corinti 15, 47). E nell’Incarnazione del Logos l’umana natura non fu solo unta da una sovrabbondanza di Grazia, ma fu assunta in un’unione intima ed ipostatica con Dio stesso. In questa elevazione della natura umana ad una eterna comunione con la vita divina, i Padri della Chiesa primitiva videro unanimi l’essenza della Salvezza, la base di tutta l’opera redentrice del Cristo. “È salvato ciò che è unito a Dio”, dice san Gregorio di Nazianzo. E ciò che non era unito non poteva essere salvato. Questa era la sua principale ragione per insistere, contro Apollinare, sulla pienezza dell’umana natura dall’Unigenito nell’Incarnazione. Questo è il motivo fondamentale ricorrente in tutta la teologia antica, in sant’Ireneo, sant’Atanasio, nei Padri della Cappadocia, in san Cirillo di Alessandria, in san Massimo il Confessore. Tutta la storia del dogma cristologico è determinata da questa fondamentale concezione: l’Incarnazione del Logos intesa come Redenzione. Nell’Incarnazione la storia umana riceve il suo completamento. L’eterna volontà di Dio si realizza, “il mistero nascosto dell’eternità e sconosciuto agli Angeli”. I giorni dell’attesa sono passati. Colui che era promesso è venuto. E da questo momento, per usare la frase di san Paolo, la vita dell’uomo “è nascosta con il Cristo in Dio” (Colossesi 3, 3)…
L’Incarnazione del Logos fu un’assoluta manifestazione di Dio. E soprattutto fu una rivelazione della vita. Il Cristo è il Logos della Vita… “e la Vita si manifestò e noi l’abbiamo vista e ne testimoniamo ed annunciamo a voi la vita, la Vita eterna, che era con il Padre e che si manifestò a noi” (1 Giovanni 1, 1-2). L’Incarnazione è la rinascita dell’uomo, per così dire, la resurrezione della natura umana. Ma il punto culminante dell’Evangelo è la Croce, la morte del Logos incarnato. La vita è stata rivelata nella sua pienezza attraverso la morte. Questo è il mistero paradossale del Cristianesimo: la vita attraverso la morte, la vita dalla tomba ed oltre la tomba, il mistero della tomba apportatrice di vita. Noi siamo nati ad una vita reale ed eterna solo grazie alla nostra morte battesimale ed alla nostra sepoltura nel Cristo; noi siamo rigenerati con il Cristo nel fonte battesimale. Questa è la legge immutabile della vera vita. “Nessun seme rivive se prima non muore” (1 Corinti 15, 36).
“Grande è il mistero della fede: Dio s’è manifestato nella Carne” (1 Timoteo 3, 16). Ma Dio non si manifestò per ricreare il mondo improvvisamente grazie alla sua onnipotenza, o per illuminarlo e trasfigurarlo con l’immensa luce della sua gloria. Fu nell’estrema umiliazione che la rivelazione della divinità si realizzò. La volontà divina non distrugge la condizione originale della libertà umana, la libertà di disporre di se stessi, non distrugge né abolisce l’antica legge della libertà umana. In ciò si manifesta una certa autolimitazione o “kènosis” della potenza divina. E quel che più conta, una certa “kènosis” dell’amore divino stesso. Quest’ultimo, per così dire, restringe e limita se stesso nel rispettare la libertà della creatura. L’amore non impone la guarigione con la costrizione, come avrebbe potuto fare. Non c’era un’evidenza costrittiva in questa manifestazione di Dio. Non tutti riconobbero il Signore della gloria “sotto la forma del servo”, che egli deliberatamente assunse. E chi lo riconobbe non lo fece grazie all’intuito personale, ma grazie alla rivelazione del Padre (cfr. Matteo 16, 17). Il Logos incarnato apparve sulla terra come uomo tra gli uomini. Ciò significava assumere tutta la pienezza umana per redimere gli uomini, pienezza non solo della natura umana, ma anche di tutta la vita umana. L’Incarnazione doveva manifestarsi in tutta la pienezza della vita, nella pienezza dell’età dell’uomo, poiché tutta questa pienezza potesse essere santificata. Questo è uno degli aspetti del concetto della “ricapitolazione” di tutto in Cristo, che con tanta enfasi sant’Ireneo riprese da san Paolo. Era questa l’umiliazione del Logos (cfr. Filippesi 2, 7). Ma questa “kènosis” non era una riduzione della divinità, che nell’incarnazione sussiste immutata. Al contrario era un’elevazione dell’uomo, la deificazione della natura umana, la “thèosis”. Come afferma san Giovanni Damasceno, nell’Incarnazione “tre cose furono realizzate in una sola volta: l’assunzione, l’esistenza e la deificazione dell’umanità per mezzo del Logos”. Bisogna sottolineare che nell’Incarnazione il Logos assume l’originale natura umana, innocente e libera dal peccato originale, senza alcuna macchia. Questo fatto non viola la pienezza della natura umana né diminuisce la somiglianza del Salvatore nei confronti di noi peccatori. Infatti il peccato non è proprio della natura umana, ma è un prodotto parassitico ed anormale. Questo aspetto fu sottolineato da san Gregorio Nisseno e particolarmente da san Massimo il Confessore in relazione alla teoria della volontà come sede del peccato. Nell’Incarnazione il Logos assume la primitiva natura umana, creata “ad immagine di Dio”, per cui quest’ultima è ristabilita nell’uomo. Ciò non era ancora l’assunzione della sofferenza umana o dell’umanità sofferente. Era l’assunzione della vita umana, ma non ancora della morte. La libertà del Cristo dal peccato originale significa anche libertà dalla morte, che è il “compenso del peccato”. Il Cristo è libero dalla corruzione e dalla morte già dalla sua nascita. E, simile al primo Adamo anteriormente alla caduta egli può non morire affatto, sebbene naturalmente egli possa anche morire. Egli era libero dalla necessità della morte, poiché la sua umanità era pura ed innocente. Perciò la morte del Cristo era e non poteva non essere volontaria, non frutto della natura decaduta, ma risultato di una libera scelta ed accettazione.
Una distinzione deve essere fatta tra l’assunzione della natura umana da parte del Cristo ed il fatto che egli prese su di sé i nostri peccati. Il Cristo è “l’agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo” (Giovanni 1, 29). Ma egli non prende su di sé i peccati del mondo nell’Incarnazione. Prendere su di sé i peccati del mondo è un atto della volontà, non una necessità della natura. Il Salvatore prende su di sé i peccati del mondo per una libera scelta d’amore. Egli li porta in tale modo che ciò non diventa una sua colpa o viola la purezza della sua natura (…) l’assunzione dei peccati ha un valore di redenzione, in quanto è un libero atto di compassione e d’amore. Né si tratta solo di compassione. In questo mondo, che è in preda al peccato, anche la purezza stessa è sofferenza, è una fonte e causa di sofferenza. Perciò un cuore giusto soffre e si addolora per l’ingiustizia che patisce per opera della malvagità di questo mondo. La vita del Salvatore, come quella di un essere giusto e puro, come una vita pura e senza peccato, deve essere stata inevitabilmente su questa terra quella di uno che soffrì. Il bene è oppressivo per il mondo e questo mondo è oppressivo per il bene. Questo mondo si oppone al bene e non volge lo sguardo alla luce. Ed esso non accetta il Cristo e respinge sia lui che il Padre suo (Giovanni 15, 23 sg). Il Salvatore si sottopone all’ordine di questo mondo, sopporta, e l’opposizione di questo mondo è coperta da suo amore che perdona: “Essi non sanno quel che fanno” (Luca 23, 34). Tutta la vita di nostro Signore è una Croce. Ma la sofferenza non è ancora tutta la Croce. Quest’ultima è più che la semplice sofferenza di un giusto. Il sacrificio del Cristo non si esaurisce nella sua obbedienza, sopportazione, pazienza, compassione e perdono. L’unità dell’opera redentrice del Cristo non può essere suddivisa in parti. La vita terrena del Signore è un’unità organica e la sua opera redentrice non può essere connessa esclusivamente con un momento particolare della sua vita. Comunque il punto culminante della sua vita è la morte. Ed il Cristo stesso lo afferma nell’ora della morte: “Ma è proprio per quest’ora che sono venuto” (Giovanni 12, 27). La morte redentrice è lo scopo definitivo per l’Incarnazione.
Il mistero della Croce supera le nostre capacità intellettive. Questa “terribile visione” sembra estranea ed allarmante. Tutta la vita del Cristo fu un grande atto di pazienza, di grazia e di amore. Ed è tutta illuminata dallo splendore eterno della divinità, sebbene questo splendore sia invisibile nel mondo di carne e del peccato. Ma la salvezza si realizza completamente sul Golgotha, non sul Tabor (cfr. Luca 9, 31). Il Cristo venne non solo per insegnare con autorità e parlare al popolo in nome del Padre, non solo per compiere opere di grazia. Egli venne per soffrire per morire e risorgere. Egli stesso più che una volta lo dichiarò ai discepoli perplessi ed allarmati. Non solo preannunciò l’approssimarsi della passione e della morte, ma chiaramente affermò che egli doveva soffrire ed essere irriso. Egli esplicitamente disse che “doveva”, non semplicemente che “si apprestava a morire”. “E cominciò a spiegare loro che il Figlio dell’Uomo dovrà soffrire molto. Gli anziani del popolo, i capi dei sacerdoti ed i maestri della legge lo condanneranno; egli sarà ucciso, ma dopo tre giorni risusciterà” (Marco 8, 31; Matteo 16, 21; Luca 9, 22; 24; 26). È necessario, non secondo la legge di questo mondo, in cui il bene e la verità sono perseguitati e respinti, non secondo la legge dell’odio e del male. La morte di nostro Signore era una decisione presa in piena libertà. Nessuno gli toglie la vita, ma egli stesso offre la sua anima con un supremo atto di volontà ed autorità. “Io ho l’autorità” (Giovanni 10, 18). Egli soffrì e non morì “non perché non potesse sfuggire alla sofferenza, ma perché scelse di soffrire”, come è detto nel Catechismo Russo. Scelse non semplicemente nel senso di una volontaria sofferenza e non resistenza, non semplicemente perché permise che la rabbia del peccato e dell’ingiustizia si sfogasse su di lui. Non solo permise, ma lo volle. Egli doveva morire secondo la legge della verità e dell’amore. In alcun modo la crocifissione fu un suicidio passivo o semplicemente un assassinio. Era un sacrificio ed un’oblazione. Era necessario che egli morisse, ma non secondo la necessità di questo mondo, bensì secondo la necessità del divino Amore. Il mistero della Croce comincia nell’eternità, nel santuario della santissima Trinità, ed è inaccessibile per le creature. Ed il mistero trascendente della sapienza e dell’amore di Dio si rivela e si compie nella storia. Perciò il Cristo è chiamato l’Agnello “che Dio aveva destinato a questo sacrificio già prima della creazione” (Pietro 1, 9) e “che è stato sgozzato dall’eternità” (Apocalisse 13, 8). La Croce di Gesù, frutto dell’ostilità dei Giudei e della violenza dei Gentili, è in realtà solo l’immagine terrena e l’ombra di questa Croce celeste di amore. Questa “necessità divina” della morte sulla Croce supera in realtà ogni capacità dell’intelletto umano. E la Chiesa non ha mai tentato una definizione razionale di questo supremo mistero. Formule scritturali sono apparse, ed ancora appaiono, le più adeguate. In ogni caso non lo saranno semplici categorie etiche. L’interpretazione morale, o ancor più quella legale o giuridica, non possono essere altro che antropomorfismo scolorito. Ciò è vero anche riguardo all’idea del sacrificio. Il sacrificio di Cristo non può essere considerato come una pura offerta o resa. Ciò non spiegherebbe la necessità della morte, poiché tutta la vita del Logos Incarnato era un continuo sacrificio. Com’è che la sua vita purissima era insufficiente per la vittoria sulla morte? Ed era la morte realmente una prospettiva terrificante per il Giusto, per il Logos Incarnato, tanto più che già precedentemente sapeva che sarebbe giunta la Resurrezione il terzo giorno? Ma anche i comuni martiri cristiani hanno accettato tutti i loro tormenti e sofferenze e la morte stessa con piena calma e gioia, come una corona ed un trionfo. Il capo dei martiri, il Protomartire Gesù Cristo, non era inferiore a loro. E per loro stesso “decreto divino”, per la “stessa necessità divina”, egli “doveva” non solo essere sottoposto all’esecuzione capitale ed ingiuriato e morire, ma anche risorgere il terzo giorno. Quale che sia la nostra interpretazione dell’agonia del Gethsemani, un punto è perfettamente chiaro: il Cristo non era una vittima passiva, ma il conquistatore anche nella sua estrema umiliazione. Egli sapeva che questa umiliazione non era semplicemente sofferenza o obbedienza, ma il vero sentiero della gloria, della vittoria suprema. Né la sola idea della giustizia divina, la “iustitia vindicativa” può rivelare il profondo significato del sacrificio della Croce. Il mistero di quest’ultima non può essere adeguatamente interpretato in termini di una transazione, di una ricompensa, di un riscatto. Se il valore della morte del Cristo fu infinitamente accresciuto dalla sua divina persona, lo stesso si applica anche a tutta la sua vita. Tutte le sue azioni hanno un valore infinito in quanto frutto del Logos di Dio incarnatosi. Ed esse coprono in maniera sovrabbondante sia gli errori che i difetti del genere umano decaduto. Infine, difficilmente ci potrebbe essere una giustizia retributiva nella passione e nella morte del Signore, quale poteva esserci anche nella morte di un qualsiasi giusto. Infatti non si trattava della sofferenza e della morte di un semplice uomo, sopportata con l’aiuto divino a causa della sua fede e pazienza. Questa morte era la sofferenza del Figlio di Dio stesso incarnatosi, la sofferenza di una natura umana senza macchia, già deificata per essere stata unita all’ipostasi del Logos. Né ciò si può spiegare con l’idea di una soddisfazione sostitutiva, la satisfactio vicaria degli scolastici. Non perché la sostituzione non sia possibile. In realtà il Cristo prese su di sé i peccati del mondo, ma Dio non desidera la sofferenza di alcuno, egli ne soffre. Come la pena di morte del Logos Incarnato, purissimo e senza macchia, poteva essere l’abolizione del peccato, se la morte stessa ne è il compenso e se essa esiste solo nel mondo sottoposto al peccato? (…). La Croce non è il simbolo della giustizia, ma dell’amore divino. San Gregorio Nazianzeno esprime con grande enfasi tutti i suoi dubbi a questo proposito nella sua celebre Orazione Pasquale.
“A che e perché questo sangue è stato versato per noi, il preziosissimo sangue di Dio, il Sommo Sacerdote e Vittima?... Noi eravamo schiavi del maligno, venduti al peccato ed abbiamo portato su noi stessi questo danno a causa della nostra animalità. Se il prezzo del riscatto fu dato a nessun altro che a colui di cui ci trovavamo in potere, mi chiedi a chi e perché questo prezzo è stato pagato. Se è stato versato al maligno, allora è veramente insultante! Il ladro riceve il prezzo del riscatto; non lo riceve solo da Dio, ma addirittura riceve Dio stesso. Per la sua tirannide egli riceve un così abbondante prezzo, che era in dovere di aver pietà di noi… Se è stato versato al Padre, in primo luogo, ci chiediamo in che modo. Non eravamo in suo potere?... Ed in secondo luogo per qual ragione? Per qual motivo il Sangue dell’Unigenito era gradito al Padre, il quale non accettò neppure il sacrificio d’Isacco, ma mutò l’offerta sostituendo la vittima razionale con un agnello?...”. Con tutte queste domande san Gregorio cerca di chiarire come sia inesplicabile la Croce in termini di giustizia vendicatrice e così conclude: “Da tutto ciò è evidente che il Padre accettò il sacrificio non perché egli lo richiedesse o ne avesse bisogno, ma per l’economia e perché l’uomo deve essere santificato dall’umanità di Dio”.
La Redenzione non è affatto il perdono dei peccati né la riconciliazione dell’uomo con Dio. Essa è l’abolizione completa del peccato, la liberazione dal peccato e dalla morte. E la Redenzione fu compiuta sulla Croce, con il sangue della sua Croce (Colossesi 1, 20; cfr. Atti 20, 28; Romani 5, 9; Efesini 1, 7; Colossesi 1, 14; Ebrei 9, 22; 1 Giovanni 1, 7; Apocalisse 1, 5-6; 5, 9). Non solo grazie alle sofferenze sulla Croce, ma precisamente con la morte in Croce. E la vittoria definitiva è opera non delle sofferenze o della pazienza, ma della morte e della resurrezione. Entriamo con ciò nella profondità ontologica dell’esistenza umana. La morte del Signore era la vittoria sulla morte non la remissione dei peccati, né semplicemente la giustificazione di un uomo, né la soddisfazione di una giustizia astratta. E la vera chiave del mistero può essere offerta unicamente da una coerente dottrina della morte umana.
G. Florovskij
Da “Creation and Redemption”, 1976, Nordland Publisking compagny, 95-104. trad. T. Ch.
In “Messaggero Ortodosso”, n. dicembre-gennaio Roma 1981-1982, 14-25.