Bartolomeo I
Patriarca Ecumenico
Le belle arti nella prospettiva ortodossa
(Conferenza tenuta il 19 novembre 2005
in occasione del conferimento della sua laurea honoris causa
da parte dell’Università “Alma Mater Studiorum” di Bologna)
L’ampiezza delle diverse specie di belle arti non ci permette sicuramente di occuparci di tutte. Qualcuno direbbe, addirittura, che la Chiesa Ortodossa non avrebbe ragione di occuparsi con alcune belle arti. Non si deve però trascurare che l’opera dell’artista esprime il suo mondo interiore e, di conseguenza, nella misura in cui l’artista è influenzato in modo vitale da qualche insegnamento ortodosso, da qualche vissuto, o punto di vista, secondo la stessa misura farà entrare nella sua opera – consapevolmente o inconsapevolmente – qualcosa che la differenzierà da un’altra simile, sullo stesso tema, di un altro artista non influenzato dalla fede e dal vissuto ortodosso, o influenzato da altre opinioni eterodosse o non cristiane.
L’influenza del contenuto della sua fede sull’artista è assoluta quando si tratta dell’innologia, poiché gli inni esprimono tramite la parola poetica e artistica, il contenuto della fede sia per quanto riguarda il dogma, sia per quanto riguarda la lotta spirituale e l’ethos del fedele, sia per quanto riguarda gli avvenimenti della vita della Chiesa e dei suoi santi membri. È così grande la ricchezza innologica della Chiesa Ortodossa, accumulata da secoli e ancor oggi incrementata da tanti innografi contemporanei, che si occupa di tutti i temi della fede e della vita cristiana, in modo da essere considerata un’esposizione completa dell’insegnamento dogmatico e morale della Chiesa e della storia ecclesiastica, come un catechismo melodioso per i fedeli e come un’indicazione del retto modo di rendere gloria e, in genere, di pregare dei fedeli. È stato appropriatamente detto che il costante studio dei libri liturgici innografici – i quali oltre gli inni comprendono anche le Vite dei Santi quotidianamente festeggiati, i commenti sui più importanti eventi della storia ecclesiastica, e una moltitudine di brani della Santa Scrittura, specialmente veterotestamentari – equivale allo studio di molti scritti dogmatici, morali e storici.
Soprattutto le formulazioni degli inni, composti da santi membri della Chiesa e approvati per l’uso liturgico, hanno la prova della correttezza dogmatica, morale e di quella generale, perché se per caso qualche inno o tropario avesse qualche deviazione da tale correttezza, verrebbe cancellato dai libri in questione.
Anche la musica ecclesiastica è coerentemente usata nella Chiesa Ortodossa non per dare un godimento sentimentale ai fedeli che vanno in chiesa, ma per sottolineare la parola degli inni e delle letture, in modo che il culto sia ragionevole, sia cioè una comprensione delle parole musicate. Ciò mira a contribuire alla partecipazione noetica [= spirituale] del fedele alle cose che si dicono, che si cantano e si leggono, per provocare in lui la compunzione, non semplicemente una commozione sentimentale, ma un sentimento degno d’un uomo, un sentimento di pentimento in modo psichicamente controllato, il che è la vera compunzione, senza alcun turbamento.
Già dall’epoca dei primi secoli del Cristianesimo erano espresse alcune obiezioni all’introduzione del canto dei tropari nel culto da parte di alcuni asceti, poiché avrebbero condotto al turbamento dei fedeli. Nel Gherontikon, si riporta che l’Abbà Pambo, rispondendo alla domanda del suo allievo: “Perché anche noi non cantiamo canoni e tropari?”, gli abbia detto: “Se ci troviamo davanti a Dio, dobbiamo starci con molta compunzione e non con turbamento, perché i monaci non sono venuti in questo eremo per stare davanti a Dio con turbamento, proferendo canti, agitando le mani e muovendo i piedi”.
A tal proposito, anche il nostro predecessore tra i Santi Giovanni Crisostomo rimproverava le esagerazioni di coloro che cantavano con le seguenti caratteristiche parole:
“Qui ci sono alcuni che disprezzando Dio e considerando le parole spirituali come comuni, lanciano grida scomposte e non si differenziano per niente dagli invasati, scuotendo tutto il corpo e vagando, mostrando costumi estranei allo stato spirituale. O miserabile e travagliato, bisogna che tu con timore e terrore innalzi la glorificazione angelica e con tremore ti confessi al Creatore, chiedendo il perdono per le tue colpe. Ma qui tu segui i mimi e i danzatori, stendendo in maniera scomposta le mani, serbando i piedi e piegando totalmente il corpo... In tal modo con grida insignificanti rendi pubblico il disordine dell’anima. Allora, come osi mischiare a questa glorificazione angelica i giochi dei demoni?” (Omelia a Osea).
Il beato Geronimo, ispirandosi alle parole dell’Apostolo Paolo agli Efesini con le quali si rivolgeva a tutti i fedeli – “Riempitevi di Spirito, rivolgendo a voi stessi salmi, inni e cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore nel vostro cuore” –, scriveva tra l’altro: “Così deve cantare il servo di Cristo, in modo che non piaccia la voce del cantante ma le parole che si leggono, affinché lo spirito malvagio vada via e non venga in quelli che hanno fatto della casa di Dio una dimora delle genti”.
Da allora a oggi nella Chiesa Ortodossa esiste un continuo dialogo tra due parti di fedeli che hanno diverse opinioni per quanto riguarda il grado d’uso della musica nel culto. Possiamo dire che l’uso della musica vocale è fissato in modo inamovibile nel culto della Chiesa Ortodossa e le esortazioni dei Padri riguardo al suo stile sono state accettate in modo che è generalmente accolto che la musica ecclesiastica non si compone partendo da criteri puramente sentimentali.
Il godimento sentimentale non è escluso, ma non diviene il centro delle nostre aspirazioni. Malgrado che tanti asceti la considerassero come un intorpidimento dei fedeli e una distrazione dalla preghiera, quale ripetizione mentale e razionale da parte di ciascuno di essi di inni e letture, l’odierna situazione concede a quanti frequentano sia i Sacri Monasteri sia le Parrocchie un alto godimento sentimentale che non solleva lo spirito in aria ma lo esalta.
Comunque, questo modo riservato ha portato gli artisti musicali a un proprio auto-contenimento nel consolidato stile ecclesiastico che non permette innovazioni estreme ed esperimenti. Anche le iniziative di tipo personale possono presentarsi, ma dentro l’ambito prestabilito. Esistono, inoltre, pure regioni nelle quali sono prevalse, in base all’uso locale, altre modalità di canto che la Chiesa accetta, anche se raccomanda il ritorno alla tradizione bizantina. Ciò succede soprattutto nelle Chiese della Diaspora Ortodossa, nelle quali vengono imitate le tradizioni musicali della popolazione eterodossa cristiana circostante.
Un ruolo più alto nella vita ecclesiastica ortodossa, è svolto dalla Bella Arte dell’Iconografia, in altre parole, della pittura ecclesiastica. È a tutti noto il lungo conflitto dell’Iconoclasmo, terminato con il prevalere di coloro che erano a favore delle Sacre Immagini. Quest’Arte ha lasciato all’umanità un’enorme ricchezza di raffigurazioni delle persone sacre e si è variamente formata di Chiesa in Chiesa. Chi ha un po’ di familiarità con le tradizioni iconografiche delle diverse Chiese distingue subito un’icona della tradizione copta da un’icona di tradizione armena o da una bizantina, come da una raffigurazione del Rinascimento.
La tradizione bizantina, che ultimamente riprende nelle Chiese Ortodosse lo spazio che nel corso dei due precedenti secoli era stato a sue spese guadagnato dallo stile naturalistico rinascimentale, cerca di esprimere il cambiamento che prova il fedele per l’azione della Grazia increata di Dio in lui. La luce è interiore e diffusa, non esiste ombra. I Santi hanno attorno al loro capo una corona di luce che non rappresenta simbolicamente, ma ontologicamente, il Santo Spirito insito in tutta la loro esistenza. In primo luogo, l’intera loro figura ed espressione ritrae, secondo quant’è consentito alle possibilità umane, le caratteristiche naturali di ogni Santo e, in secondo luogo, il cambiamento spirituale della propria luce interiore da parte della Grazia increata Divina. La rappresentazione del Santo non è frutto della fantasia dell’artista o imitazione di un modello qualunque da lui scelto, ma un ritratto della persona esistente, che può essere riconosciuta tramite le proprie caratteristiche tra una moltitudine di altre. Così, malgrado esista l’abitudine di riportare sull’icona il nome scritto del santo rappresentato, se questo fosse stato cancellato, il santo sarebbe riconosciuto dalle sue caratteristiche fisionomiche.
San Teodoro lo Studita afferma in merito: “È dunque considerata ed è veramente immagine di Cristo quella fatta artisticamente, avente specie, ossia forma corporea, caratteristiche proprie e tutti gli altri segni esterni noti” – “Ea autem duntaxat imago Christi et est et dicitur, quae per artem facta, speciei corporae, sive formae, proprias notas, et alia quaeque exteriorum gerit indicia” (Contro gli iconoclasti, PG 99, 496B). Di conseguenza, se quanto viene considerato come icona di Cristo o di un Santo, non attribuisce le caratteristiche naturali di Cristo o del Santo rappresentato, ma quelle fantasiose dell’artista, quell’opera d’arte non si chiama icona di Cristo o del concreto Santo eponimo, anche se l’artista dichiara di aver rappresentato con questa sua opera Cristo o quel Santo.
In un altro brano, lo stesso San Teodoro lo Studita risponde a coloro che sostenevano l’opinione iconoclasta per cui siccome la Natura Divina di Gesù Cristo è indicibile, non si permette la Sua raffigurazione, perché la Sua icona sarà insufficiente, in quanto raffigurazione della sola Sua natura umana. San Teodoro chiarisce: “[Cristo] è provenuto dalla formazione nel ventre di sua Madre, la Theotokos, diversamente sarebbe un aborto, non un uomo avente già una forma, o nemici di Dio” — “Expressus enim et efformatus ex utero prodiit Deiparae matris suae: sin minus, abortivum quiddam et non formatus homo fuit, o theomachi!” (Epistola VIII, PG 99, 1 132D). Egli accetta certamente che l’immagine non rappresenta l’indicibile Natura Divina – che, altrimenti, non sarebbe stata visibile ai contemporanei di Cristo – ma soltanto la Sua natura umana che è stata vista, scrivendo quanto segue:
“Poiché ha avuto persona rappresentata con alcune caratteristiche, allora Cristo è raffigurabile secondo la sua visione corporale, com’è anche indicibile secondo la sua invisibile sostanza” (PG 99, 1 13C).
Conseguentemente a tali posizioni, l’artista non è libero di attribuire a Cristo o a un Santo una qualsiasi figura fantastica da lui desiderata. Al contrario, è obbligato a rispettare le sue caratteristiche naturali. Il VII Concilio Ecumenico ha pure dichiarato in merito che la “... Santa Chiesa di Dio, come ha ricevuto dai santi Apostoli e Padri, questo genere visto dagli uomini, [questo] raffigura” (Mansi 13, 340D). Di conseguenza, la libertà dell’artista iconografo consiste solo nella migliore attribuzione della figura naturale assieme al cambiamento dallo Spirito Santo e dell’illuminazione interiore della persona raffigurata, nel modo in cui questi elementi si vendono. Tale attribuzione è differente rispetto la fotografia o la sua imitata raffigurazione naturalistica, perché rappresenta i santi, secondo quant’è possibile, oltre l’usura e i vincoli di luogo e tempo.
Più specificamente, i Santi sono raffigurati in modo venerabile, come la Chiesa li evidenzia, attraverso immagini prive di elementi, come dice San Fozio il Grande, “dell’akosmìa, del non-ornamento materiale” e della “curiosità umana”. Egli, in una delle sue epistole, scrive a tal proposito che l’arte iconografica “... non raffigura e forma, nulla del non-ornamento materiale e della curiosità umana; in tali [immagini] si rappresenta tutta la sua opera mostrando ed esprimendo pura e senza macchia, nelle venerabili immagini, le enfasi dei prototipi, in modo e tipo sacro presenti” (Epistola 76, in I. Valeta, Fozio ... Epistole, Londra 1864, p. 401).
Dunque, l’aspetto degno dell’arte dell’agiografo sta nel fatto d’ottenere (se l’ottiene) di narrare tramite la sua iconografia la verità evangelica nel mondo, non semplicemente di raffigurare il mondo senza l’influenza in esso della Grazia Divina. Allora [tale arte] è ben riuscita e buona, quando insegna davvero, sia agli illetterati sia ai letterati, quanto anche esprime il Vangelo, non solo come monumento iscritto, ma come Chiesa viva. In modo caratteristico San Giovanni Crisostomo dice: “Così diciamo che è buono sia il vaso, sia l’animale, sia la pianta; non per la [loro] conformazione né per il [loro] colore ma per il [loro] servizio”. Se, allora, la pittura ecclesiastica offre il sopraddetto servizio, se serve bene la predicazione della salvezza in Cristo è buona, altrimenti non si considera ecclesiasticamente buona, anche se dal punto di vista tecnico è irreprensibile. Di conseguenza, la raffigurazione ha uno scopo, è coscritta al servizio di una mira prescelta, per cui non appartiene all’artista dell’iconografia scegliere il messaggio che la sua opera pronuncerà mutamente e iconograficamente.
Ciò, però, non significa che nella Chiesa Ortodossa l’iconografo non possa sviluppare un proprio stile artistico. Al contrario, questa libertà è riconosciuta, com’è manifesto dal fatto che nella Chiesa Ortodossa, lungo i secoli, si sono sviluppate molte maniere artistiche o scuole, le quali sono state tutte accettate, se avevano rispettato la fedeltà alla forma, alla sacralità e al risultato.
L’agiografo, secondo la tradizione ortodossa, deve perciò prepararsi spiritualmente con il digiuno, la preghiera e lo studio della Vita del Santo che dovrà essere raffigurato, in modo da entrare in comunione con lui ed essere adombrato dalla Grazia Divina, per compiere bene la diaconia della raffigurazione del Santo stesso. Ciò significa che l’agiografo non è un artista mondano, ma un diacono ecclesiastico, che deve compiere la sua diaconia, come ogni altro diacono nella Chiesa, vale a dire nello Spirito Santo.
Abbiamo lasciato per ultima la Bella Arte dell’architettura dei Sacri Templi, che racchiude tutte le altre arti ecclesiastiche. La diciamo ultima, anche se esistono ancora tante altre belle arti ecclesiastiche, come la scultura, l’artigianato degli oggetti di culto, il ricamo, la particolare confezione dei paramenti sacri e di altre, visto che non ci occuperemo specificamente di esse. Tutte queste compongono l’insieme artistico dello spazio cultuale e danno il particolare colore e stile spirituale prevalente in esso.
Il sacro tempio ortodosso non ha una forma architettonica prestabilita. Troviamo chiese di molteplici schemi, anche se è solito considerare come suprema concezione architettonica quella della Santa Sapienza di Dio (Santa Sofia) in Costantinopoli, a tutti nota. Inoltre, l’ornamento interno e il riordino del sacro tempio ortodosso negli ultimi secoli, fu fissato da alcune predominanti caratteristiche quali, specialmente, l’esistenza dell’iconostasi, la posizione della Santa Mensa nella parte orientale del tempio, dentro l’iconostasi, l’ampia iconografia, l’uso di cere di tipo orientale, l’esistenza di altarini con icone portatili, ecc.
Il Tempio simboleggia l’universo. Nella cima della cupola centrale é raffigurato il Pantocrator (Cristo Onnipotente) e nell’abside del Santuario la Tuttasanta che tiene il Bambino come la più ampia (Platytèra) dei Cieli. Tutto attorno, le agiografie sui muri ci portano nel mondo eterno dei Santi e degli Angeli che ci circondano. Così, stando nel Tempio, sentiamo che ci troviamo nel Regno dei cieli, sotto il tetto e la provvidenza del nostro Signore Gesù Cristo pieno di amore, incarnato, visto e che ha dimorato con gli uomini.
Tutto nel Sacro Tempio è pieno di simbolismo. La luce che scende dalle molte finestre della cupola, la dov’essa esiste, ci riempie “di ogni dono perfetto che scende dall’alto”; i Santi intorno a noi ci ricordano che viviamo “insieme con tutti i santi” e che i morti non hanno cessato di esistere, ma semplicemente hanno cambiato modo di esistenza; gli splendidi paramenti sacri mostrano il fatto che il clero è rivestito della grazia sacerdotale; l’incenso ci invita d’indirizzare la nostra preghiera come incenso davanti a Dio; le candele sono fiaccole, bruciano d’amore per Cristo, come devono essere i nostri cuori; il compunto canto sacro, ripete l’inno trisagio dei Cherubini alla sovradivina Trinità; le sacre letture ci avvicinano agli eventi del passato e del futuro in una unità diacronica ed escatologica; il dialogo tra il clero e il popolo col quale siamo invitati a “innalzare i nostri cuori” e, soprattutto, l’evento della rinnovazione del sacrificio del Verbo (Logos) divino-umano per il nostro amore, ci alterano la santa alterazione della destra dell’Altissimo e, sin da ora, ci costituiscono partecipi del Regno celeste.
Quest’alterazione ontologica dell’uomo, ottenuta con l’attrazione della grazia ed energia increata di Dio, è la più bella delle belle arti; è la Scienza delle scienze. Che tutti possiamo ottenere quest’alterazione, utilizzando tutte le altre buone arti, quale accompagnamento al nostro sforzo. Allora queste belle arti avranno giustificazione come ancelle della salvezza eterna dell’uomo. Così sia.
Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/belleartipatr.htm